testimonianze

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LA TESTIMONIANZA DI
GIORGIO BADIALI
Il documento che segue è stato ricavato dall’intervista gentilmente concessa dal professor Giorgio Badiali.
La trascrizione è fedele e presenta solo piccole correzioni di forma imposte dal passaggio dal parlato allo scritto. Abbiamo
preferito “montare” la trascrizione secondo argomenti che abbiamo indicato con un titolo sintetico per garantire la maggiore
fedeltà possibile al documento ufficiale, quello audio video.
La scelta è stata compiuta anche nell’intento di conservare nel testo scritto la spontaneità della testimonianza orale,
preziosa per la puntualità delle ricostruzioni e per l’intensità delle immagini che evoca.
Il ritorno
Quella che sto provando è una sensazione incredibile…
Ho cercato di rimandare questa visita per
anni, perché è difficile ritornare in luoghi dove si
è tanto sofferto. Mi guardo intorno... adesso qui è
tutto in ordine, tutto rimesso a nuovo, ma io ho
ancora sotto gli occhi lo scenario terribile e tragico
del dopo-bombardamento. Vede questo leccio?
Ne parlava perfino il Dizionario Zingarelli: era un
albero ultracentenario, una vera curiosità botanica.
Questo è giovane, rigoglioso. Quando uscii all’aperto
da quelle macerie era un rudere, come molte
di queste cappelle della Via Crucis che sono qui
in cerchio...
Lo sfollamento
In seguito allo sbarco di Anzio, il Comando tedesco
dichiarò Albano retrovia del fronte, diversamente
da altri Castelli Romani, e ci obbligò in
un’ora a lasciare la cittadina. Quindi abbiamo dovuto
affrettarci a fare qualche valigia, riempiendola
alla rinfusa, mettendo dentro cose magari inutili,
e trascurando nella fretta altre più utili.
La popolazione non sapeva letteralmente dove andare.
Era un fiume di gente impazzita e disperata.
A un tratto si sparse la voce che Papa Pio XII aveva
dato ordine di accogliere gli sfollati nella Villa
Vaticana. I cancelli si spalancarono. Noi ci siamo
trovati risucchiati in questo vortice, in mezzo alla
polvere, ai carretti, alla gente che piangeva. Mi ricordo
il dolore che provai per aver perso la mia cagnetta
che ho inseguito tra le gambe della gente per
qualche tempo. Poi non l’ho più vista. Sì, lo so, è
un piccolo dettaglio nella tragedia che si stava consumando,
ma per me, a quell’età, quella perdita
aveva un significato.
Mia madre ottenne miracolosamente la disponibilità
di tre stanze, da dividere con altre quattordici
persone. Dunque eravamo in 17, senza un angolo
per cucinare, solo il nudo pavimento. Questo edificio
era completamente occupato in tutti gli angoli,
compresi i corridoi e le scale: dappertutto c’era
gente sdraiata. Quando uno usciva, doveva scavalcare
i materassi, le persone che dormivano. Io lo
facevo di frequente, perché avevo l’incombenza di
scendere a piano terra e cucinare nei giardini della
villa qualcosa di caldo da mangiare. Mettevo due
sassi con due sbarre di ferro e facevo bollire la marmitta
dove mi ricordo cucinavo spesso la “favetta”,
quella che si dà ai maiali, una preziosa risorsa per
quei tempi. Mi ricordo anche che quando l’acqua
cominciava a bollire, alla superficie galleggiavano le
larve, i vermi. Quel legume, conservato gelosamente
per troppo tempo, aveva finito per deteriorarsi.
Siamo venuti qui sperando[…] nell’incolumità,
perché il Presidente americano Roosevelt aveva pochi
mesi prima dato assicurazione che questi luoghi,
tutti i luoghi appartenenti al Vaticano, sarebbero
stati risparmiati. […]
Sapevamo che il Papa era neutrale, e a noi ci bastava.
Ovviamente non eravamo in grado di dare
un’interpretazione formale, giuridica o diplomatica,
della situazione. A noi bastava il fatto di essere
sotto la protezione e nelle mani del Papa, che era
obiettivamente un’entità estranea al conflitto.
Albano durante lo sfollamento
Lei non ha idea di che cosa fosse Albano in quei
giorni. Si sarebbe detto che tutta la popolazione era
uscita per un convegno misterioso: la città completamente
deserta, con le persiane che sbattevano, gli
usci aperti, l’odore dei cadaveri per le strade, le vie
spesso interrotte da cumuli di macerie, qualcuno
che cercava disperatamente, sfidando le pattuglie
tedesche, di rientrare in casa per recuperare qualcosa.
Mia madre, Federica Federici Badiali, una
donna veramente coraggiosa, l’ha fatto più di una
volta. Io ho dei ricordi commoventi e terribili di
queste spedizioni. Non solo. Lei si preoccupava anche
della scuola, essendo preside incaricata dell’istituto.
Era una di quelle insegnanti vecchio stampo,
di cui si è persa la traccia. Cominciò a dire: “bisogna
andare a salvare i registri, perché senza i registri
e gli altri documenti , la scuola è come se non
fosse mai esistita. Come si fanno le certificazioni?
Come si procede alle iscrizioni?”. Poi c’erano dei
materiali preziosi da mettere al sicuro. In seguito
all’introduzione dell’insegnamento del “lavoro”, la
scuola era stata dotata, ad esempio, di macchine da
cucire per le ragazze o di torni per i ragazzi, secondo
le varie specializzazioni. Ma era impossibile
mettere in salvo questi beni, perché non vi erano i
mezzi per trasportarli. Lei se ne rese conto. Allora
reclutò un omino con un carretto e un mulo […]
e hanno fatto insieme vari viaggi, tra un mitragliamento
e l’altro, con quel poveretto che gridava “Signora,
annàmo via che sennò c’ammazzano tutti”,
e mia madre continuava a fare su e giù con bracciate
di carte. Vi è una nota umoristica in questa
vicenda. A operazione ultimata, sotto la minaccia
di pattuglie tedesche che potevano sopraggiungere
da un momento all’altro e che erano autorizzate
a sparare a vista, con i mitragliamenti che imperversavano
a destra e a sinistra, lei si rivolse all’uomo
e gli disse: “Scusate un momento, devo salire
in Presidenza, perché credo di aver lasciata aperta
la porta”! Lei è salita, mentre quel disgraziato, che
rischiava la vita, si raccomandava a mani giunte!
Prima di fare tutto questo, mia madre era andata
a Roma, al Ministero, a porre il problema e a dire
che c’era da salvare quel patrimonio di documenti
e di beni. Il Direttore generale che la ricevette le
disse “Noi non possiamo rischiare la vita di una
madre per salvare i documenti del ginnasio, se lei
lo fa, lo fa a suo rischio e pericolo”. E mia madre
lo ha fatto lo stesso. Questi sono i veri atti di eroismo
di cui nessuno parla! Di questo sapeva tutto
la vecchia bidella Bianca Crescenzi, che ha mantenuto
con noi rapporti per vari anni. Ma è morta
anche lei.
Altre volte, come ho già accennato, andavamo a
casa per cercare di recuperare qualche oggetto. Si
trattava delle cose più varie, spesso acquistate a
prezzo di tanti sacrifici, durante tutta una vita. Non
mancava il fenomeno dello sciacallaggio, praticato
da qualche sciagurato del posto. Uno di questi entrò
dentro casa con un sacco sulle spalle, mentre
noi stavamo lì a rovistare per cercare di salvare qualcosa.
Mio fratello che era diciannovenne, quando
l’ha visto - lo riferisco per dare un’idea di quei tempi
- disse a un conoscente che stava con lui: “Questo
lo ammazziamo”. Prese una sbarra di ferro e si
appostarono dietro la porta... lo avrebbe ucciso…
Un uomo, anzi un ragazzo, timorato di Dio, cresciuto
nei buoni sentimenti, nel rispetto del prossimo...
In condizioni normali non avrebbe fatto
male a una mosca. In quel momento era capace di
uccidere. A questo porta la guerra. Poi, per fortuna,
mia madre ha fatto irruzione nella stanza e lo
ha affrontato in malo modo gridandogli: “Voi chi
siete? Andate via!”. Così ha sottratto la vittima al
suo possibile assassino.
[…] Noi, nonostante tutto, eravamo determinati
a trattenerci in zona il più possibile, perché - non
lo si dimentichi - avevamo una casa, la nostra casa,
da salvaguardare.
Ogni volta che qualcuno andava ad Albano, al ritorno
veniva subissato di domande da un nugolo
di persone che volevano sapere: “Lei è passato in
Via del Plebiscito ? Com’è la situazione ? E in Via
Aurelio Saffi, scusi tanto, sa, quella casa vicino alla
merceria… ce l’ha presente ? Le porte sono sbarrate?
Si intrecciavano descrizioni concitate nel timore
di equivoci. “Per favore sa dirmi se è ancora
in piedi quella casa in Via della Vignetta, sa, vicino
al maniscalco?” “ Ha capito di che parlo?”. Mia
madre insisteva: “dobbiamo stare qui, la casa è qui,
io lavoro qui, e ho la responsabilità del ginnasio”.
La Villa
Come ho già detto, la Villa Vaticana rigurgitava di
gente. Ce n’era dappertutto, dentro e fuori degli
edifici. Chi può dire quanti fossero? Non si è potuto
neppure fare un conteggio dei morti: chi dice
trecento, chi cinquecento, chi mille... figuriamoci
dei vivi! Si è parlato di quindicimila. Io so solo
che ogni angolo era occupato. In quelle condizioni,
non c’era alcun controllo della gente che andava
e veniva. Moltissimi vivevano nei giardini, accampati
sotto tende improvvisate. Il Vaticano si
sobbarcò uno sforzo immane, perché bene o male
era l’unica Autorità che si prendeva cura di noi disgraziati,
distribuendo qualche razione di pane o
di latte.
I fascisti e l’occupazione tedesca
Dei fascisti di Albano ho i ricordi del fanatismo,
delle adunate, degli esercizi ginnici. Io avevo dentro
casa una forte voce contraria che era quella di
mio padre che insieme a pochissimi si radunava in
segreto per parlare male del regime. E fui scacciato
da una colonia perché “figlio di un noto antifascista”.
Vivevo questa situazione con un certo disagio,
perché gli altri ragazzini partecipavano alle
sfilate gridando “Via il Duce!”, agitando il moschetto
che sembrava proprio vero. Io ero scocciato
da quelle adunate, e quando potevo cercavo di
farla franca. Devo dire la verità, non è che lo facessi
per antifascismo È ridicolo attribuire una scelta
del genere a un ragazzino di 12 anni; però avevo
i miei giochi, avevo i miei compagni dentro il
giardino che stava dietro casa, e quindi mi scocciava
di andare a passare i pomeriggi in quel campetto
che è dietro al Murialdo a fare le esercitazioni in
vista del saggio finale: era una cosa noiosissima.
Il ricordo dei fascisti di Albano, non è dei più lusinghieri.
Era voce comune che fossero degli accaparratori,
perché, in anni di severo razionamento,
le mogli dei gerarchi avevano sempre un trattamento
di favore presso il macellaio, il fornaio e così via,
mentre in pubblico condannavano pesantemente
chi faceva il mercato nero oppure cercava di sopravvivere,
e reclamavano pene esemplari per i traditori
della Patria. Delle squadre dell’OVRA ricordo
le ronde di notte contro gli spiragli di luce per
imporre l’osservanza dell’oscuramento contro le
incursioni aeree. Bisognava chiudere le finestre in
modo ermetico. Poi mi ricordo di radio Londra che
si annunciava con le note della Va di Beethoven, e
che noi ascoltavamo incollati all’apparecchio. Un
certo colonnello Stevens riferiva i fatti e faceva i
suoi salaci commenti. Il rischio che correvamo era
grande. Allora mia madre ogni tanto andava a passeggiare
sotto le finestre - le nostre erano al primo
piano - per assicurarsi che non si sentisse la trasmissione
proibita, che era l’unica vera nostra fonte di
informazione.
Un altro incredibile episodio del periodo di sfollamento,
riguarda sempre mia madre. Arrivando un
giorno a casa per una delle sue rischiose spedizioni,
vide i tedeschi che dalle finestre del nostro appartamento,
lanciavano i nostri materassi su un camion
sottostante. Indignata e addoloratissima,
chiese del comando tedesco e si presentò al cospetto
di un colonnello “ Mi meraviglio molto - disse
senza timore - che un esercito come quello tedesco
che tiene tanto all’onore e al rispetto delle regole
militari, si abbandoni a atti di saccheggio di questo
genere”. Il colonnello stupefatto non sapeva cosa
rispondere, poi tentò di giustificarsi, in non so
quale italiano, dicendo che, in tempo di guerra,
episodi come quelli possono accadere, soprattutto
in una città evacuata, e si mostrò disposto a risarcire
i danni. Ordinò infatti che le fossero consegnate
altre masserizie, naturalmente rubate a qualcun
altro.
Il bombardamento del 1° febbraio:
[…] C’è chi, di fronte ai primi disastrosi bombardamenti
di Albano, nel corso dei quali furono colpiti
tanti obiettivi civili, tentò di giustificare quelle
azioni parlando di “errori”. Ci illudemmo pensando
che i responsabili avrebbero preso consapevolezza
di quegli errori e che avrebbero fatto più
attenzione...”Ci sono state delle proteste - ci dicevamo
- staranno più attenti…”.
Chi poteva immaginare che arrivassero allo scempio
qui perpetrato? È assolutamente incredibile
quanto avvenuto, dal punto di vista strategico. A
parte le assicurazioni fatte al Papa dal Presidente
Roosevelt in persona, questo edificio ha una tale
visibilità…! In una giornata tersa come era quella,
ogni equivoco era impossibile e inescusabile.[…]
Chi poteva immaginare che un edificio del genere,
di così vaste proporzioni, che dall’alto, in proiezione
verticale, si vede proprio sul bordo del lago,
con accanto una villa i cui giardini hanno architetture
geometriche inconfondibili e visibili anche
dalla luna, potesse diventare un bersaglio per i
bombardieri americani?! E le assicurazioni di Roosevelt
non avrebbero dovuto comportare la trasmissione
agli equipaggi degli aerei di rigorose
istruzioni, accompagnate da dettagliate planimetrie
delle zone extraterritoriali?
Le postazioni tedesche
Io ricordo solo il transito massiccio di truppe e
mezzi corazzati lungo la via Appia, invano bombardata:
passavano, come dicono qui, “a tutto spiano”,
senza sostanziali interruzioni, sicché tutte
queste sofferenze sono state patite senza che siano
stati raggiunti apprezzabili risultati sul piano militare.
Si è parlato di postazioni tedesche in questa
zona. Forse qualche batteria antiaerea.
Mi ricordo che dopo l’8 settembre, quando la divisione
Piacenza ebbe quello scontro a villa Doria
con i Tedeschi, furono lasciati incustoditi interi depositi
militari di armi appartenenti alle truppe italiane.
Noi ragazzini andavamo a rifornirci in uno
di questi depositi situato vicino al Convento dei
Cappuccini e riempivamo di proiettili e obici
un’intera carriola del giardiniere; facevamo anche
dei giochi pericolosi smontando quegli ordigni e
utilizzando la polvere per fare luminarie, costruire
bombe carta e altre cosette del genere.
Da qui, dall’ultimo piano di Propaganda Fide, assistevamo
ai bombardamenti nella pianura antistante:
era ormai un evento quotidiano, ma tale era
la nostra fiducia nell’extraterritorialità, che non ci
facevano nemmeno paura, anche se a volte si verificavano
assai vicino, a due, tre km di distanza.
Spesso le bombe venivano sganciate in aperta campagna,
in zone visibilmente insignificanti dal punto
di vista militare. Si aveva l’impressione che gli
equipaggi avessero una gran fretta di sbarazzarsi del
loro carico scrivendo sul loro carnet “missione
compiuta”.
Il bombardamento del 10 febbraio
Era un giorno come un altro. Certo, c’erano stati,
come ho detto, bombardamenti sempre più vicini.
Quando parlo di bombardamenti vicini intendo
dire al di là dell’Appia, poco più, quindi, di due
o tre chilometri, quattro chilometri al massimo, ma
ormai eravamo abituati a questi episodi. Devo precisare
che mio padre aveva acquisito una capacità
di percepire il pericolo di cui già un’altra volta aveva
dato segno, quando fu distrutto il Convento delle
Clarisse ad Albano. Eravamo a Piazza Pia, a non
più di cento metri da quel convento. Lui vide che
quella formazione aerea si era allargata e si fece
l’idea che i bombardieri quando si apprestano a
sganciare non mantengono una formazione serrata,
ma si allargano, forse per aumentare lo spettro
dell’obiettivo, la zona da colpire, non lo so. Sta di
fatto che lui ci gridò “Questi non mi piacciono,
andiamo a ripararci”, e Dio solo sa se i fatti gli diedero
ragione.
Qui a Propaganda Fide, quel mattino, ebbe la stessa
sensazione. Vide dall’alto - perché stavamo all’ultimo
piano - che quegli aerei si stavano avvicinando
nella nostra direzione allargando la formazione;
allora disse a tutti: “scappate”, “andate giù,
andate giù perché questi…, non ci vedo chiaro”.
Lui si trattenne perché voleva andare nella stanza
accanto a prendere una cassetta di legno, che custodiva
dei soldi, e qualche gioiello di famiglia, insomma
le solite cose.
Noi intanto ci precipitammo lungo le scale, scavalcando
i materassi e le persone sdraiate, in una confusione
crescente che stava diventando panico. Afferrai
per la giacca un mio compagno, per scendere
insieme a lui. Ma mi resi conto, scendendo, che
avevo scambiato persona. Sono sbucato a piano
terra in un grande salone […], un salone enorme
che aveva alle due estremità delle grandi vetrate:
una dava sul giardino, verso la villa, e l’altra dava
su un cortile interno dove c’era una fila di donne,
cento, centocinquanta, a ritirare la razione di latte
che il Papa faceva distribuire agli sfollati. Entrai in
questa stanza in mezzo a un rumore crescente e assordante,
causato dalle batterie antiaeree tedesche
. Poi cominciò il bombardamento. Ho nitida davanti
a me una scena terribile. In mezzo a questa
enorme stanza, mentre scoppiavano le bombe, vidi
una cerchia di donne e bambini abbracciati, urlanti
e piangenti, e in mezzo un prete che, a un certo
punto, alzò una croce verso il cielo gridando:
“Sangue di Cristo proteggici, Madonna Santissima
aiutaci!”. Era una cosa tremenda... le donne e
i bambini che urlavano e le bombe che esplodevano
[…]. Poi è stato l’inferno. Io sono stato sollevato
dallo spostamento d’aria e scaraventato più in
là, non so quanti metri, certo più di una diecina.
E non so per quanto tempo sono rimasto svenuto.
Se fossi stato in una piccola stanza, sicuramente sarei
rimasto schiacciato contro un muro. Caduto
per terra, non potevo respirare perché avevo la gola
piena di calcinacci, e con il sapore acre delle polveri
esplodenti. Ero tutto bianco, naturalmente.
Ho cominciato a tastarmi perché pensavo di essere
morto. Avevo una minuscola ferita alla mano
si10
nistra, ora è una piccola cicatrice, niente, c’era appena
una goccia di sangue tamponata dal calcinaccio,
niente, niente. Mi toccavo da tutte le parti, e
a un certo punto mi sono reso conto che ero incolume
e mi sono riappropriato della vita. Guardando
dalla parte del cortile, ho visto che l’apertura,
prima chiusa da una vetrata, era per due terzi
ostruita da macerie, sulle quali arrancava un uomo
come se volesse liberarsi da quello scenario surreale.
Poi naturalmente l’istinto è stato quello di uscire
immediatamente da quella stanza, verso il giardino,
e lì ho ritrovato quel ragazzo che avevo perduto
durante la discesa. Avevamo bisogno di respirare,
di ritrovare la vita, l’aria, il sole e ci siamo messi
a correre come pazzi, come pazzi in quei giardini
vaticani, scavalcando le aiuole e le siepi di bosso,
follemente, senza meta, per non so quante centinaia
di metri, non saprei dirlo. Ma a un certo punto
ci siamo fermati, un po’ perché eravamo esausti,
e un po’ perché ci siamo detti, lui ed io: “e mia
madre ? e mio padre?”. Di fronte a un disastro del
genere abbiamo cominciato veramente a temere
che fossimo rimasti soli. Io pensavo: “mio padre
non ha fatto in tempo a scendere!”. Io ero fuggito
per primo, mio fratello e mia madre dietro, ma abbastanza
distanziati. È stato un vero miracolo ritrovarli
tutti sani e salvi.
Quello che c’era intorno è difficile da descrivere:
enormi crateri, travi, macerie, morti, feriti, una
donna che, senza una gamba, chiedeva di essere
soccorsa. L’abbiamo trascinata sotto un albero. Subito
dopo, mi sono imbattuto in un sacerdote che
conoscevo, perché aveva frequentato la mia famiglia
in tempi meno drammatici. Questo prete aveva
una profonda ferita alla testa, il viso e la tonaca
nera insanguinata fino ai piedi e tra le braccia una
bambina morta.
La reazione della gente era fatta di mille sentimenti:
rabbia, rassegnazione, disperazione. Rabbia, certamente
[…]. Diffuso lo sbalordimento, la sensazione
di essere stata traditi da qualcuno. Non dovevamo
essere al sicuro? La disperazione era inenarrabile.
Gli episodi, le situazioni erano l’uno più
atroce dell’altro. Per esempio il caso di un padre e
di una madre usciti a cercare qualcosa da mangiare
per i figli, che, al loro ritorno, trovarono tutti
morti. Pare che fossero cinque, cinque figli. Apprendevamo
con rassegnazione la morte di questo
o di quello, spesso di amici, di persone care, che,
in altre circostanze avremmo pianto a lungo. E invece,
ci limitavamo a mormorare “è morto, poveretto”,
subito distratti dalla morte di un altro. In
quel momento c’era l’inflazione della morte. E poi
finiva per prevalere l’istinto della vita: Ci ripetevamo:
“siamo ancora vivi”. Anche se, naturalmente,
un vecchio come me non può nascondersi, dopo
simili esperienze, il senso di precarietà della vita che
esse trasmettono…
Se ripenso a quei giorni, rivedo tutte quelle povere
vittime, disseppellite e allineate ovunque, in attesa
che qualcuno le riconoscesse. E noi che transitavamo
fra quelle macabre quinte, con in mano
le nostre povere cose, gli occhi fissi in avanti, ansiosi
solo di uscire da quell’inferno. Qualche sguardo
furtivo indugiava su quei poveri corpi. Non potrò
mai dimenticare - l’ho scolpita nella memoria
- la figura di un padre con un bambino abbracciato
al collo, coperti di polvere e di calcinacci, a stento
riconoscibili. Se dovessi mettere un’immagine
davanti a questa storia, ecco come la vedrei.
Dopo le bombe
Poi, dopo il bombardamento, mio padre e mia madre
si chiesero: “Che facciamo?”. La mia famiglia
era di origine marchigiana ma non avevamo i mezzi
per raggiungere i parenti a Maiolati, in provincia
di Ancona. Venimmo a sapere che, proprio qui
sotto, c’erano due grotte di origine vulcanica verso
cui si dirigevano alcune famiglie di sopravvissuti
e quindi siamo scesi in riva al lago, e ci siamo accampati
lì, per due o tre mesi, in totale promiscuità.
Eravamo in 150. Vivevamo di stenti. Io mi sfamavo
con i broccoli per i campi, perché erano le
uniche cose che rimanevano invendute. Cercavo di
mettere a profitto la mia capacità con la fionda per
catturare qualche uccello, oppure, servendomi di
una forchetta fissata in cima a una canna, infilzavo
qualche cefalo lungo la riva […].
Nessuno poteva fare dei progetti e dire: “Io farò
questo, farò quest’altro”. Eppure mia madre, per
non farmi perdere l’anno scolastico, ebbe la forza
di portarmi a Roma per farmi fare qualche scritto
presso uno spezzone del ginnasio di Albano che si
era trasferito nella capitale, utilizzando gli insegnanti
colà residenti. Era una vera follia. Pensare
al futuro mentre la gente viveva ora per ora. Vivevamo
nell’angoscia continua, privi di tutto. Mi ricordo
un giorno, nella grotta, quando dissi a mia
madre: “Mamma, ma è vero che moriremo di fame?”.
Mia madre mi guardò e mi disse: “No, cocco,
no. Pensa, ho trovato un chilo e mezzo di farina”.
Un chilo e mezzo di farina. Era quella la barriera
che ci separava dalla morte per fame! Era una
ricchezza per noi, si viveva così. Io portavo una
giacca dismessa di mio padre arrotolata alle maniche,
che mi faceva da cappotto. Non avevo più calze,
infilavo i piedi in vecchi scarponi di mio fratello,
fasciandoli con pezze di fustagno legate alle caviglie.
Mio fratello, che soffriva di esaurimento nervoso,
e di insonnia, aveva ottenuto di poter dormire in
una villa disabitata, qui sotto. Non c’era nessuno,
perché la gente aveva paura di vivere in case in muratura.
Una notte venne uno di quegli aerei - che
noi chiamavamo “gli orfanelli” - che, alla luce dei
bengala, sganciavano delle bombe qua e là, più che
altro per disturbare il riposo di qualche contingente
tedesco che, di ritorno dal fronte di Anzio, cercava
di ritemprarsi per qualche ora nelle retrovie.
A un certo punto uno di questi ordigni cadde proprio
nel giardino di quella villa, e le schegge penetrarono
attraverso la finestra sopra la testa di mio
fratello trinciando i vestiti appesi in un armadio
della parete di fronte. […] Vedemmo mio fratello
scendere per i campi in mezzo a cavoli e broccoli
in camicia da notte, alla luce spettrale dei bengala…
sembrava un fantasma. Correva come un pazzo
per raggiungere la grotta e mettersi al riparo dal
bombardamento. Si può anche ridere quando si sta
per morire.
Il camion della speranza
Un brutto giorno, ci fu comunicato che il Vaticano
non era più in grado di sovvenire ai bisogni di
tutta quella gente. La popolazione di Castel Gandolfo
costituiva già un onere notevole. Gli abitanti
di Albano erano pertanto invitati, con rammarico,
a sfollare. Potevamo approfittare - ci dissero -
degli autocarri che risalivano vuoti la penisola, verso
l’Umbria e le Marche per rifornirsi di grano.
Non potevamo fare altro che approfittare di quell’offerta.
Il problema era però avvicinarsi al Palazzo
pontificio per essere presi a bordo. Ci trasferimmo
pertanto dalla grotta in un appartamento libero
del centro, vicino alla piazza centrale. […] Questo
era un problema di capitale importanza, nel
senso vero del termine. È difficile spiegarlo ai giovani
di oggi, che non possono rendersi conto della
situazione in cui vivevamo. Trasferirsi da una via
all’altra poteva costare la vita. Vede, io esco da quella
porta per andare sotto quel leccio... che problema
c’è? Sono pochi passi... ma allora non sapevo
cosa poteva capitarmi. Per noi il problema principale
era dunque come arrivare indenni dentro il
cortile del Palazzo pontificio, percorrendo i trecento
metri che ci separavano da quel traguardo. Dovevamo
pensare a mio fratello, che correva il rischio
di essere deportato in Germania: c’era razzia di uomini,
e i soldati tedeschi passavano al setaccio una
casa dopo l’altra per scovare chi cercava di sfuggire.
Entrarono armati di mitra anche nell’appartamento
dove stavamo, e mio fratello si salvò nascondendosi
dentro un materasso, arrotolato e messo
in piedi sul pavimento, in bella vista, con un cuscino
sopra, come fosse in via di sgombero […].
Nottetempo, col cuore in gola, rasentando i muri,
raggiungemmo quel cortile. Quegli autocarri furono
caricati fino all’inverosimile, e per aumentarne
la capacità furono installate, ai due lati, delle reti
metalliche che prolungavano in alto le sponde. Noi
che eravamo più giovani ci siamo aggrappati alle
reti con i piedi sul bordo del cassone, e abbiamo
viaggiato così per chilometri e chilometri. Poi, alla
fine, la situazione si è sbloccata perché qualcuno
è sceso nel frattempo e siamo saliti su anche noi.
Le strade erano mal ridotte. Ogni tanto si incontrava
un veicolo, militare o civile, incendiato, perché
gli aerei arrivavano e mitragliavano. Anche a
noi è capitato. L’autista si fermava precipitosamente.
Ci aveva raccontato che, in altre spedizioni del
genere, i camions del Vaticano, nonostante i vistosi
contrassegni bianchi e gialli della Santa Sede, erano
stati incendiati. Quindi, a scanso di equivoci,
saltavamo dal cassone disperdendoci nei campi.
Ma che forse qualcuno si era data la pena di spiegare
all’aviatore dell’Alabama quale era la bandiera
del Papa, o anche solo che esisteva un Papa a Roma?
Lo sapevano forse i piloti delle fortezze volanti
in volo su Propaganda Fide?
Per fortuna fummo risparmiati. Forse la bandiera
che ci aveva protetti era la nostra stessa visibile miseria.
Dopo infinite peripezie, che non sto qui a raccontare,
giungemmo nella piazza principale di Maiolati.
Mio padre, invecchiato, dimagrito, con una
lunga barba bianca era irriconoscibile, ma fu subito
riconosciuto. La folla assediò il camioncino con
cui avevamo percorso l’ultima tappa, gridava il suo
nome e gli impediva di scendere. Dal ’22, quando
fu costretto dai fascisti a dimettersi insieme alla
giunta, erano passati ben 22 anni! Fu subito chiaro,
a poche settimane ormai dalla liberazione, che
la gente rivoleva il suo sindaco. E tale fu, sia pure
per pochi mesi, prima di morire. La storia a volte
prende le sue rivincite.